Capita sovente quando si svolge una critica dei pregiudizi ideologici che annebbiano la corretta comprensione di una questione di far riferimento al termine napoletano “battilocchio” reso celebre dalla canzone di Totò “Piccerella, piccerè” magistralmente interpretata da Nino Taranto (https://www.youtube.com/watch?v=7hYv_4gp6X4) , nei deliziosi versi
“Piccerè, piccerè, /nun te credere ca i’ sò nu battilocchio;/ i’ te saccio e te strasaccio,/ tu si’ ‘a figlia ‘e Mastu Ciccio /ca venneva int’ ‘a Arenaccia / pesce fritto e baccalà/ mo vuò fà Miss Universo,/ tu si’ nata ‘o mese ‘e marzo,/ sient’ a me ca è tiempo perzo,/ va, vattene addu mammà/ Piccerè, piccerè”
Per gli amanti della filologia, giova ricordare che il termine deriva dal vocabolo francese battant l’oeil usato per indicare una cuffietta femminile che ricadeva sugli occhi.
Metaforicamente lo stesso termine è stato poi usato a Napoli per indicare una persona che sembra essere sempre frastornata e stordita.
Così come chi indossa la cuffietta non vede bene per l’indumento che annebbia la vista, così chi è definito “battilocchio” sembra essere confuso come se non vedesse e, di conseguenza, è considerato di scarsa intelligenza.
Il termine mi è tornato alla mente leggendo il testo “Una ineludibile questione di tattica” del compagno Giulio Angeli che attribuisce al movimento anarchico una tendenza all’arroccamento perdente ed improduttiva quando, ad esempio, afferma
” l’anarchismo si è arroccato, decidendo di giocare la partita in casa propria e su terreni sindacali ritenuti ad esso più consoni. Ciò si è realizzato in base a un diffuso senso di opportunità, che ha spinto ad agire per comunanza ideologica anziché per necessità tattica.
Questa scelta, che si è configurata come una scorciatoia rispetto alle diffuse tendenze riformiste che ancora esercitano il proprio ruolo di comando, ha progressivamente sostituito alla concreta realtà di classe con tutte le sue contraddizioni, alcuni comportamenti di avanguardia i quali, rappresentando la cuspide del movimento sindacale, esprimono contenuti non generalizzabili a contesti più ampi”
Da questa attitudine sarebbe derivata la mancata comprensione della rilevanza di quanto è avvenuto negli anni passati nella FIOM che viene così tratteggiata
” si può e si deve essere critici nei confronti della FIOM, i cui gruppi dirigenti hanno rappresentato, almeno fino agli anni ’80 del novecento, l’essenza del sindacalismo riformista con tutte le implicazioni negative del caso che si allungano fino a oggi: ma quando la FIOM intraprende un percorso che sposta la categoria su posizioni più avanzate gli anarchici non dovrebbero, così come è stato, scartare a priori l’ipotesi di intervenirci dentro. Non si è fatto, e si è persa una preziosa occasione di crescita perché la scelta di intervenire in altre e più qualificate istanze del sindacalismo di base, per altro in ordine sparso, ha prodotto risultati irrilevanti”.
Proverò, come so e come posso, a prendere in esame le due affermazioni che ho riportato nella speranza di uno essere accecato da una cuffietta ideologica.
Partirei da una prima domanda, esiste effettivamente un’entità sufficientemente omogenea che possiamo definire come “anarchismo” e, in particolare, vi è una valutazione condivisa sulla questione della relazione classe/capitale?
A me pare evidente che il movimento anarchico realmente esistente si caratterizzi per una varietà di elaborazioni, esperienze, pratiche, proposte che non possono in alcun modo essere ricondotte ad unità a meno che non si faccia riferimento ad alcuni principi generalissimi, certamente importanti in quanto criteri regolativi ma non tali da indirizzare l’azione politica pratico/sensibile.
Si può considerare questa situazione un bene o un male, ognuno può pensare che la propria interpretazione dell’anarchismo è la più adeguata all’azione rivoluzionaria, a volte lo faccio persino io, ma è un fatto dal quale non si può prescindere è che, per dirla con più franchezza che discrezione, per molti versi è un bene perché apre molte possibilità di azione e di sperimentazione che la chiusura in un’unica ipotesi ci precluderebbe.
Sul piano sindacale questa realtà di fatto ha come inevitabile conseguenza la pluralità delle scelte con l’effetto, magari sgradevole ma inevitabile, che, come partito ed uso il termine nel suo senso storico di area politica distinta dalle altre e quindi PARTE, gli anarchici non operano assieme ad accrescere il proprio peso in questa o quella organizzazione sindacale.
Fra l’altro, considerando il fatto che l’obiettivo comune che dovremmo avere in quanto sindacalisti libertari è il favorire il processo di autorganizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori e l’autonomia della nostra classe, l’appartenenza a questa o a quella organizzazione sindacale è sicuramente rilevante ma non è l’orizzonte nel quale collochiamo la nostra azione.
Sulla base di questa considerazione, pare sin comprensibile che molti compagni, ed io mi pongo fra questi, nella piena consapevolezza che le lotte più radicali non sono la condizione media o, se si preferisce, normale dell’esperienza proletaria, guardino con attenzione, interesse, partecipazione a queste stesse lotte.
Non si vede, infatti, da dove altrimenti, potrebbero liberarsi le energie necessarie a cambiare il quadro sociale, in generale, e quello sindacale in particolare.
Poi , è sin evidente che alcune elaborazioni teoriche ed organizzazioni sindacali che fanno di un segmento della classe, mi riferisco, per stare ai tempi nostri, ai lavoratori della logistica ma la tesi ha valore generale, l'”avanguardia” del proletariato di cui conquistare la direzione al fine di avere quella dell’intera classe producono una proposta per noi inaccettabile non perché valorizza il conflitto, cosa sulla quale conveniamo appieno, ma perché ripropone un’ipotesi dirigista e sovente esplicitamente neobolscevica che non ci appartiene e che anzi va contrastata.
Quindi non di “arroccamento” si tratta ma, al contrario, di una politica di movimento che colloca il proprio agire sul terreno dello scontro effettivo fra le classi e che, anche in considerazione della limitatezza delle proprie forze, si concentra sui punti di frattura della relazione ordinaria fra capitale e lavoro.
Giulio Angeli, però, rileva in particolare il fatto che i compagni nostri non hanno guardato/ guardano con l’attenzione che avrebbe meritato/meriterebbe alla pratica, alla dialettica interna, all’elaborazione della FIOM CGIL.
Mi permetterò, a questo proposito, di narrare un aneddoto di nessuna rilevanza in sè ma, in qualche misura, illuminante. Giorni addietro ho tenuto un’assemblea in un istituto scolastico della prima cintura torinese ed avevo come interlocutore un operatore sindacale della CGIL, persona vispa e cortese. Alla fine dell’assemblea essolui mi ha raccontato che, nel corso di una precedente assemblea, un collega, RSU nel mio stesso sindacato, persona che stimo, aveva fatto rilevare alcune contraddizioni fra FIOM e CGIL e che lui aveva avuto buon gioco nel fargli rilevare che basterebbe esaminare una tessera della FIOM per “scoprire” che la FIOM è una federazione di categoria della CGIL e non un’entità libera e selvaggia. Ripeto, una scoperta della crema pasticciera ma anche un bagno di realtà.
Riprendendo la questione in termini meno aneddotici, la ma esperienza, per quello che vale, mi insegna due cose:
- sul terreno del conflitto reale non è affatto mio/nostro uso rifiutare a priori l’azione comune, il confronto delle idee, la solidarietà con lavoratrici e lavoratori organizzati non solo con la CGIL ma anche, e senza rilevare alcuna apprezzabile differenza, con CISL e UIL. Se dovessi fare l’elenco degli scioperi e le mobilitazioni aziendali e categoriali nei quali abbiamo agito assieme ai sindacati istituzionali stenterei a stenderlo ma, appunto, si parla di lotte. Poi ben più numerosi sono i casi nei quali CGIL CISL UIL hanno agito, ed agiscono, a negare al sindacalismo conflittuale i diritti sindacali minimi, organizzano il crumiraggio e la negazione, rifiutano la solidarietà. Dovremmo essere comunque “unitari”? Sarebbe, mi perdoni il compagno Giulio Angeli, l'”unità” della corda con l’impiccato;
- gli stessi militanti che animano il sindacalismo conflittuale, e non mi riferisco certo solo agli anarchici, non sbarcano da Marte ma, nella grande maggioranza, vengono proprio dalla sinistra sindacale tradizionale e, se hanno fatto la scelta di rompere con il sindacalismo istituzionale, non lo hanno fatto certo per amor di purezza ma perché hanno preso atto, sulla base dell’esperienza di anni e sovente di decenni, del fatto che non vi erano margini per un’azione di efficace contrasto alla politica di queste organizzazione e hanno scelto di pagare un prezzo pesante in termini di agibilità, di diritti, di risorse pur di fare un sindacalismo non dico rivoluzionario ma semplicemente non corporativo.
Per, provvisoriamente, concludere. Credo di aver maturato negli anni un po’ di esperienza del mondo sindacale reale e, su questo stesso mondo, esiste un’ampia letteratura scientifica che di molto eccede la mia stessa esperienza.
Ciò che caratterizza, con ogni evidenza, questo mondo è, per un verso, la piena integrazione nell’apparato statale e padronale grazie ai finanziamenti che ne riceve ed alle regole del gioco che hanno comunemente costruito e, per l’altro, la propria stessa trasformazione in un assieme di enti erogatori di servizi a lavoratrici e lavoratori atomizzati e trasformati in utenti/clienti.
Come si possa pensare di agire efficacemente - non mi riferisco alla singola rsu alla quale la burocrazia sindacale può, se lo ritiene, lasciare un certo margine di manovra ma al sindacato generale - all’interno di un ente parastatale, cosa ben diversa da un sindacato riformista, per me è un mistero e, per non passare da dogmatico, mi limito a rilevare che, se non posso escludere in linea di principio una ripresa di funzione conflittuale del sindacalismo istituzionale, solo un radicale cambiamento del quadro sociale darebbe motivo di ripensare una posizione che non è stata assunta senza una profonda e motivata riflessione.
Cosimo Scarinzi